Social e contraffazione: quale responsabilità?

 Social e contraffazione: quale responsabilità?

Foto: Pixabay at Pexels

Anche l’ultima grande operazione anti-contraffazione delle Guardia di Finanza che ha interessato il territorio del Veneto ha dovuto fare i conti con il ruolo preponderante dei social media: ma quale responsabilità si può ascrivere a Facebook & co?

Mezzo milione di prodotti sequestrati, ventisei indagati e l’individuazione di tre luoghi di produzione e una tipografia: questi i numeri dell’operazione “Macumba”, coordinata dalla Procura di Bologna, che ha interessato, oltre a Veneto ed Emilia-Romagna, anche Lombardia, Piemonte, Marche e Sardegna.

La merce contraffatta, si è scoperto, esplicitamente indicata come non originale, veniva pubblicizzata in gruppi creati sui social network.

I social sono ormai veicolo privilegiato per la commercializzazione dei prodotti contraffatti e conseguentemente si rende necessaria una riflessione sul ruolo e sulle responsabilità a cui possono essere chiamati.

In linea di principio, i social godono dell’esenzione da responsabilità prevista dalla Direttiva europea sul commercio elettronico, che stabilisce anche che questi non possano essere gravati da un obbligo generale di sorveglianza sui contenuti.

Di fronte a casi come quello dell’operazione “Macumba”, dunque, i social possono rifugiarsi nel “porto sicuro” edificato dalle disposizioni europee.

La profusione di annunci di prodotti contraffatti e i conseguenti pericoli per la salute e la sicurezza inducono a una ridefinizione della regola: così già nel 2017 l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (WIPO) concludeva uno studio sul tema enucleando un principio transnazionale di responsabilità di piattaforme e-commerce e social network secondo un criterio di razionalità.

È imperativo che i proprietari dei brand e gli intermediari collaborino e condividano la responsabilità di fermare la contraffazione; entrambe le parti devono, con pari diligenza, fare fronte comune contro la diffusione dei falsi. Il principio di razionalità implica uno standard di diligenza flessibile, che dev’essere adattato alle parti coinvolte nel caso specifico: grandi piattaforme dotate di mezzi più sofisticati, nelle quali il problema sia particolarmente diffuso, dovranno adottare misure diverse rispetto a intermediari piccoli, interessati marginalmente dal fenomeno.

Dalle valutazioni delle competenti organizzazioni sovranazionali alle pronunce dei tribunali il passo è stato veloce: così i giudici della Corte di Amsterdam, adita dalla catena di abbigliamento PVH e da Tommy Hilfiger, hanno stabilito la responsabilità di Facebook per una serie di annunci concernenti capi contraffatti.

Facebook ha pubblicato la propria policy sugli annunci pubblicitari, in cui si stabilisce che tutti gli annunci sono sottoposti al controllo di Facebook e che gli annunci non conformi alle regole non verranno mostrati: è espressamernte previsto, tra l’altro, che gli annunci debbano rispettare i diritti di proprietà intellettuale di terze parti.

La previsione del controllo degli annunci rende Facebook parte attiva e quindi parzialmente responsabile dei contenuti pubblicati: ecco perché, secondo la corte olandese, non può appellarsi all’esenzione prevista dalla normativa europea; la regola trova infatti la propria eccezione quando il destinatario del servizio (chi pubblica l’annuncio) agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore (Facebook).

La decisione, per quanto soggetta a gravame e limitata, è comunque rappresentativa di considerazioni in divenire e d’importanza proporzionale alla crescita dell’e-commerce; lo stesso giudice, va detto, ha respinto la richiesta della comunicazione dei dettagli anagrafici degli inserzionisti fatta a Facebook da PVH, in ossequio al diritto alla protezione dei dati personali: un altro elemento fondamentale nella ricerca del bilanciamento tra i molteplici, contrapposti, interessi in gioco.

Redazione