Covid-19: il punto sulle cure farmacologiche

Miguel Á. Padriñán at Pexels
Quando è scoppiata l’epidemia Covid-19 si è tentato di tutto per curare i pazienti affetti dai sintomi più gravi: dall’Idrossiclorochina (farmaco utilizzato per combattere la malaria) alle trasfusioni di plasma iperimmune.
L’utilizzo di soluzioni diversificate è stato accompagnato da una campagna mediatica confusionaria ed ambigua, che ha coinvolto persino il presidente USA Trump e quello del Brasile Bolsonaro; a oggi, però, tutti questi approcci terapeutici si sono rivelati inefficaci o, nel migliore dei casi, palliativi, venendo conseguentemente abbandonati.
Un farmaco fa eccezione: il Remdesivir, unico antivirale approvato per i malati di Covid-19.
Si tratta di un antivirale appartenente alla classe degli “analoghi nucleotidici”, pensato per interferire con il processo replicativo dei virus ad RNA: studiato più di dieci anni fa, per il trattamento dell’epatite C e il virus respiratorio sinciziale, non diede i risultati sperati e rimase pertanto inutilizzato, fino all’arrivo dell’epidemia di ebola in Africa; in questo contesto dimostrò una certa efficacia, ma venne nuovamente abbandonato in favore di farmaci più efficienti e sicuri, per essere, infine, rispolverato come rimedio anti-covid, non senza problematiche annesse.
Innanzitutto la terapia ha un costo molto elevato (circa 2000 €) e può essere somministrata solo per iniezione endovenosa, una metodologia invasiva che richiede di essere attuata in ambito protetto.
Le linee guida italiane prevedono che il farmaco sia usato solo su pazienti “selezionati”, cioè pazienti ospedalizzati, abbastanza gravi, ma non al punto di rendere vano il trattamento farmacologico.
L’OMS ha pubblicato i risultati preliminari di un ampio studio clinico internazionale in cui sono stati sperimentati i più promettenti farmaci già disponibili sul mercato per il trattamento dei pazienti Covid-19, tra cui appunto Remdesivir; i risultati sono stati purtroppo deludenti: nessuno dei farmaci testati si è rivelato efficace per ridurre la mortalità o anche solo la durata dei ricoveri.
Nonostante tutto ciò, l’Italia, con il decreto Sostegni, ha previsto un fondo speciale proprio per l’acquisto del Remdesivir, pari a 300 milioni di euro per il 2021, con cui si prevede di trattare circa 10mila pazienti ogni mese.
Per valutare in modo più approfondito l’opportunità di quest’investimento, è bene ricordare che l’infezione da Coronavirus viene distinta, secondo la prassi medica, in tre fasi:
- Una iniziale in cui la replicazione virale è importante e produce per lo più sintomi simil influenzali con malessere generalizzato, febbre e tosse secca;
- Una seconda fase con polmonite interstiziale che può portare all’insufficienza respiratoria;
- La terza, la più grave, caratterizzata dalla reazione immunitaria eccessiva, che può causare la compromissione dei polmoni e di altri organi, fino al decesso; in questa fase il virus non è più la causa del danno, ma è lo stesso sistema immunitario a dover essere tenuto sotto controllo.
Un antivirale come il Remdesivir, che agisce impedendo la replicazione del patogeno, sarà dunque inadeguato nell’ambito della terza fase clinica, mentre potrebbe essere utile nella prima fase, caratterizzata da replicazione virale; quest’ultima soluzione, pur se auspicabile, non è però di facile attuazione, sia per i già citati costi, sia perché, come visto precedentemente, il farmaco è di difficile gestione in ambito extraospedaliero.
Non ci sono, in conclusione, dati sufficienti a dimostrare che il farmaco sia utile per i pazienti affetti da Covid-19; per citare l’OMS: “non esistono prove di efficacia e l’antivirale rappresenta quindi un rischio inutile (non è privo di effetti collaterali), oltre ad uno spreco di risorse”.