Classificazione ClassyFarm e benessere animale

Quando si parla di etichettatura in generale, la difficoltà principale è mettere d’accordo le esigenze dei consumatori, che richiedono trasparenza e verità, e le scelte delle categorie dei produttori che invece tendono a mistificare e rendere fumoso quello che viene riportato in etichetta in modo tale da impedire una scelta oculata e libera da parte del consumatore.
Il ruolo politico in questa diatriba nella maggior parte dei casi si risolve con una scelta che spesso pende maggiormente a favore delle categorie di settore, che si distinguono per il profilo molto attivo ed economicamente forte.
Il Ministero delle Politiche Agricole e il Ministero della Salute stanno approntando un sistema di certificazione su base volontaria del “benessere animale”, basato sulla classificazione ClassyFarm: attraverso questo sistema è possibile categorizzare gli allevamenti, per mezzo di parametri sanitari e produttivi, in modo da permettere una più semplice individuazione degli elementi da migliorare per quanto riguarda la qualità e la sicurezza dei prodotti della filiera agroalimentare.
L’obiettivo prefisso è quello di applicare una nuova etichetta di “benessere” ai prodotti alimentari di origine animale che sia stata ottenuta secondo i criteri stabiliti dai due ministeri.
Secondo Greenpeace, le scarsissime informazioni che trapelano dai ministeri e i criteri scelti sono assolutamente insufficienti a garantire un reale miglioramento del benessere animale.
L’utilizzo della classificazione ClassyFarm nelle etichette è in realtà solo un ulteriore rafforzamento dell’attuale legislazione che potrebbe portare con sé più rischi che benefici: si potrebbe infatti incorrere nel pericolo che questo provvedimento illuda il consumatore di essere di fronte ad un prodotto più attento al benessere animale, preferendo merci con classificazione ClassyFarm, penalizzando invece quegli allevatori che si stanno veramente impegnando per cambiamenti drastici nei metodi di allevamento. Stando ai criteri previsti per ottenere la certificazione, sarebbe infatti sufficiente allevare un suino di 170 kg in poco più di un m2 (il minimo previsto dall’attuale legislazione) o dichiarare la presenza di presidi come i biodigestori che, oltre a non avere nessun nesso con il benessere animale, sono presenti negli allevamenti intensivi.
Quello che invece chiediamo a queste etichette, è che siano da stimolo per indurre gli allevatori a essere sempre più attenti al benessere animale, e puntare a un allevamento all’aperto con una riduzione della densità animale e la messa al bando dall’uso di gabbie. Per mettere gli allevatori nelle condizioni di realizzare questa transizione serve però una comunicazione chiara e trasparente nell’etichetta, affinché i consumatori possano conoscere il metodo di allevamento utilizzato e il livello di benessere raggiunto, con una classificazione di tipologia simile a quella già in uso per le uova.
Per ulteriori approfondimenti in tema di sostenibilità, consulta il sito web del progetto Re-consumer, sostenuto da Federconsumatori e dedicato, in particolare, al tema dell’economia circolare.